Nel 1950 aveva sette anni e mezzo. Adesso che l’età è moltiplicata per 10, Eliane Viti, dopo una vita dedicata all’insegnamento del francese, tiene incontri e conferenze in cui condivide la sua esperienza di giovanissima migrante da Castelletto di Roccasparvera alle Alpi di Alta Provenza. Gentilissima, ha accettato di metterla nero su bianco per noi.
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Castelletto di Roccasparvera
1950. Mamma, papà e io viviamo a Castelletto, una frazione di poche case a due chilometri dal comune di Roccasparvera, in provincia di Cuneo. Papà parte per la Provenza: va a lavorare per un’impresa edile di Manosque, nelle Basse Alpi*
Un cantiere a Saint-Vincent-sur-Jabron lo induce a mettersi a pensione nella locanda del villaggio: è lì che lavora, per installare le fognature. Il suo salario da manovale non gli basta neppure a pagare vitto e alloggio. Per riuscire a saldare i suoi conti raccoglie fiori di tiglio, nella pausa tra il mezzogiorno e la ripresa del lavoro, per rivenderli e ricavarne qualche soldo
Papà è partito solo. Mamma e io siamo ancora a Castelletto. Ci pesa molto che non sia lì con a noi. E ci pesa la mancanza di denaro: siamo costrette a comprare a credito il poco necessario alla bottega del paese
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La seconda vita di Eliane
Nell’agosto del ‘51 papà viene a prenderci: il suo nuovo cantiere non è lontano dal Colle della Maddalena, che i francesi chiamano Col de Larche. A volte bastano poche parole a tracciare una frontiera, ma lo Stura, il nostro fiume, sorge proprio lì e se ne infischia
La partenza è carica di emozioni: vendiamo quel po’ che abbiamo – la capra e due montoni –, paghiamo i nostri debiti, prepariamo i nostri passaporti e salutiamo i parenti che restano qui
L’arrivo alla Condamine Châtelard è una bella sorpresa: la luce è più viva, l’aria più secca; la stanza in cui alloggiamo ci sembra una piccola reggia. A Castelletto, avevamo un pavimento di terra battuta e niente acqua corrente. Con l’umidità e il freddo che facevano, e gli inverni che non finivano mai, non riuscivamo a scaldarci
Mamma trova un impiego da domestica all’hotel Le Parpaillon, c’è un colle qui vicino che si chiama così. L’estate finisce, arriva il primo ottobre e io prendo la strada di scuola
Non parlo il francese, con spiegazioni laboriose fatte più di gesti che di parole riesco più o meno a farmi comprendere, ma non capisco un’acca di quel che dice la maestra della multiclasse a cui mi hanno assegnato. I suoi “mani dietro la schiena” non mi dicono niente: imito il bambino seduto accanto a me
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Il camion
È appena autunno, ma le prime nevi si annunciano già. Il cantiere d’estate di papà chiude i battenti e il suo padrone, Monsieur Lazard, dice che ci porta a Manosque: si occuperà lui dei papier**
Proprio come oggi, la grande preoccupazione dell’immigrato era ottenere i documenti che gli avrebbero permesso di restare: una carta di soggiorno e una carta di lavoro necessarie a iscriversi alla previdenza sociale
Il viaggio è un’avventura: papà, mamma, le nostre valigie di cartone e io, stretti nella cabina di un camion, arriviamo a Manosque. È – scoprirò – la città dello scrittore Jean Giono: suo padre e suo nonno erano della Valchiusella, piemontesi come noi
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Ospitalità piemontese
A Manosque si respira un’aria di città e quando arriviamo noi, a fine ottobre, un bel sole d’autunno tinge i muri delle case e ci meraviglia. Ricordo le parole di papà appena sceso dal camion; “È un paradiso”, esclama
Per i primi giorni ci accolgono il capo del cantiere dell’impresa e la moglie, originaria di Paesana. Della loro ospitalità generosa resta una traccia forte nella nostra memoria. Ma io ho anche un altro ricordo, quello della prima notte dopo la fatica e le emozioni del viaggio: mi sveglio di soprassalto nel mio letto e mi accorgo che il materasso è un po’ bagnato. Mamma è costernata, lava le lenzuola e si profonde in scuse; io, che da un pezzo non ho più l’età per fare pipì a letto, mi vergogno e resto senza parole
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Manosque, rue Kléber
La nostra nuova vita in Rue Kléber, vicino alla Place du Terreau e non lontano dalla Rue Grande, si rivela piuttosto complicata
Siamo in una vecchia casa di proprietà di Monsieur Lazard. Un lungo corridoio decrepito conduce al nostro alloggio: una grande stanza con le piastrelle tutte diseguali e una nicchia buia. Al centro della stanza, una cucina economica per il riscaldamento e la cucina con un serbatoio d’acqua calda per lavarsi. Un comò di legno con tre cassetti e dei letti da campo sono la nostra mobilia sommaria
Ricordo ancora le coperte ruvide dell’esercito che usiamo per i primi tempi, finché non possiamo permetterci di comprarne di più confortevoli. Abbiamo l’acqua corrente, ma non il wc; i gabinetti pubblici si trovano a una decina di metri da casa. Abiteremo qui per quattro anni; grazie a Monsieur Lazard, senza pagare l’affitto
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A ciascuno il suo
Papà ha 34 anni e diventa sempre più bravo nel suo mestiere di muratore. Ma un incidente sul lavoro lo immobilizza per quattro mesi e gli lascia un mal di schiena cronico che lui cercherà di attenuare con un corsetto lombare di stecche di balena più doloroso del mal di schiena
Mamma ha 31 anni. Si dà da fare nei campi: raccolta delle pesche, dell’uva, delle mele… È l’inizio della meccanizzazione del lavoro agricolo e non solo: i trattori hanno rimpiazzato i cavalli e le automobili si moltiplicano
Il mio, di lavoro, è studiare.
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Leggere, imparare, ascoltare
Vado a scuola in Boulevard des Tilleuls, seguo il cours complémentaire dalla classe preparatoria fino alla terza. A otto anni compiuti imparo a leggere in francese. Parte del merito è di Don Formento, curato di Castelletto e mio primo insegnante: è a lui che devo i rudimenti di una lingua che diventerà la mia
Mi piace leggere, imparare, ascoltare, fare i compiti. I miei genitori, orgogliosi, mi incoraggiano a tenere duro
Me la cavo bene: salto per due volte una classe e sulla Place du Terreau, il nostro terreno di gioco, io sono la piccola piemontese che supera in bravura i compagni francesi. Il mio sogno è diventare maestra, ma il mio destino rischia di essere quello di moglie e madre, come per molte donne arrivate dall'Italia nei miei stessi anni: dopo aver conseguito il “brevetto elementare”, scopro che non posso prepararmi per questo mestiere perché non sono di nazionalità francese. Disillusione
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Il feuilleton
La mia naturalizzazione è un lungo feuilleton. Per cominciare, devo aspettare di avere 16 anni per fare la domanda: per non lasciare la scuola, mi iscrivo al liceo Félix Esclangon. Nella terminale ottengo il premio di eccellenza della mia classe (primo premio di filosofia, storia, geografia, inglese ecc.). Passo il baccalauréat, ma la cittadinanza francese ancora non arriva: mi iscrivo a lettere moderne all’università di Aix-en-Provence
Finalmente ottengo la naturalizzazione, ma le sorprese non sono finite. Per diventare professoressa devo aspettare ancora cinque anni e passare le prove del Capes, il Certificat d’Aptitude Pour l’Enseignement Secondaire
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Là dove tutto era cominciato
Per un azzardo della sorte, il mio primo incarico come insegnante è al liceo André Honorât di Barcelonnette, molto vicino alla Condamine, dove tutto era cominciato. 44 alunni di terza e altrettante copie di compiti da correggere. Poi vengono il Collège Camille Reymond a Château’Arnoux e, a Digne-les-Bains, il Lycée Gassendi e il Lycée David Néel. A Digne insegno per più di 30 anni
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Il bastone della vita
Cosa mi resta da raccontare? L’immensa gratitudine e l’amore infinito che provo verso i miei genitori. Al prezzo di una dura fatica, entrambi hanno risparmiato ogni centesimo per pagare i miei studi, perché volevano che la mia vita fosse migliore della loro
Del resto, papà è sempre stato fedele a un vecchio detto piemontese, “Il sapere è il bastone della vita”. “Non avrai un’eredità consistente, ma sarai attrezzata per vivere”, mi ripeteva sempre
Eliane Viti
* Oggi Alpi di Alta Provenza
** In Francia, i clandestini sono detti anche sans papiers